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Il voto, la Puglia e noi
Partiamo dai dati elementari. Vince la Lega, che nel Nord del paese riesce ad affermarsi come alternativa vivente al berlusconismo. Tengono PDL e PD, incamminati tuttavia in una china discendente, che deriva loro dall’incapacità di rappresentare l’anima del proprio campo, pur continuando a esserne il fondamentale serbatoio elettorale. Si rafforza l’IDV, che consolida il boom delle europee nel ben più impegnativo impegno delle elezioni amministrative, dotandosi così di una robusta rete di rappresentanza territoriale. Sopravvive la sinistra, che appunto sopravvive per nostalgia o irriducibile speranza.
Appare Grillo, ovvero la materializzazione del vorrei ma non posso che da sempre agita frange della scena politica italiana, soprattutto a sinistra. Vorrei essere l’alternativa a tutto e tutti, ma me lo impedisce il senso di responsabilità, la paura di Berlusconi, il desiderio di potere e altre più o meno nobili motivazioni.
E poi vince Vendola, che rappresenta una storia a se stante, probabilmente l’unica che valga la pena di essere raccontata. Vendola vince perché è la radice della sinistra che sopravvive all’inverno e si fa albero. Vince perché incassa i voti del PD, ma lo rende muto e riduce così il sordo rumore di fondo. Vince perché spezza l’opposto politica-antipolitica, riconducendo entrambe nel campo della partecipazione senza mediazione. La storia dell’ultima stagione pugliese ci parla di un movimento che va ben oltre i partiti, li scavalca e li umilia due volte.
La prima annichilendo visivamente nelle primarie la loro capacità di far corrispondere rappresentanza teorica e reale, dimensione e capacità di mobilitazione e indirizzo politico. La seconda facendo saltare ogni regola matematica alla base delle teoria della politica come alchimia di palazzo, laddove sommando il mio 3% al tuo 25% al suo 19%, senza dimenticare il loro 0,3% si fa 50,5% e si vince.
In Puglia si va soli con(tro) tutti e si vince, si parte sconfitti dalla potenza delle serie numeriche e ancora si vince. Lo si fa innanzitutto sulla base di una narrazione coerente, su cui è bene chiarirci. Esiste un grande equivoco in questo momento a sinistra. Molti sono convinti che ciò che vince in Vendola non sia il messaggio, ma il comunicatore, che a essere centrale non sia ciò che Nichi afferma, ma il fatto che sia lui ad affermarlo, con la forza della sua retorica, con l’impatto emotivo del suo stile oratorio. Falso, e offensivo.
Nichi non vince perché è un grande tribuno della plebe, esattamente per lo stesso motivo per cui Berlusconi non vince perché ha in mano le televisioni. Vendola si impone perché in lui si riconoscono la radicalità degli obiettivi, la volontà reale di perseguirli, il coraggio della sfida per raggiungerli. Coerenza, tenacia, coraggio. E poi slancio organizzativo. Perché più che Sinistra Ecologia Libertà ciò che vince in Puglia sono le Fabbriche, ovvero luoghi della Politica che nulla hanno a che fare con la politica, dove si impongono l’orizzontalità, la rete, il desiderio, e non la mediazione estenuante e il calcolo autoreferenziale.
Luoghi che la sinistra degli ultimi decenni ha già sperimentato, se solo si pensi ai primi circoli dell’Ulivo, o ai Social Forum, e rigettato, per radicale incompatibilità con le proprie forme genetiche del fare politica. La narrazione nasce qui, nell’incontro di chi vuole incontrarsi, sognare e progettare il futuro del nostro paese con chi raccoglie quelle aspettative nella propria persona, facendosi bandiera e voce di un movimento. E trasformando in una voce che diviene politica il grido diffuso dell’anti(?)politica, che poi sarebbe la rabbia davanti ad un paese che permette ad alcuni di divorare il futuro degli altri nella generale condiscendenza del potere. Vendola è il futuro della sinistra italiana, ma non perché ne sia il miglior interprete televisivo, quanto perché ne incarna il salto qualitativo, lo stadio prossimo della sua organizzazione politica, il definitivo superamento del ‘900 non nel linguaggio, ma nella sua grammatica.
Venendo a noi, che c’entra Sinistra Ecologia Libertà con tutto questo? Molto, giacchè di Vendola è il partito, tanto da recarne il nome nel simbolo. Molto poco, se si guardi a cosa essa è lontano dalla Puglia. Sinistra e Libertà nasce da un doppio slancio. Quello di quanti hanno visto nell’unione elettorale e organizzativa di diverse culture politiche la condizione della loro sopravvivenza e quello di coloro che l’hanno investita della possibilità di costruire una nuova, originale cultura della sinistra del XXI secolo.
Le due spinte non partono antitetiche, ma rischiano di divenirlo, soprattutto se alla giustapposizione delle culture originarie si accompagna la loro cristallizzazione in famiglie politiche conviventi. E’ il modello condominio, dove gruppi separati condividono uno spazio e un amministratore delle faccende comuni. Questa ipotesi è inutile, dannosa e perdente, oltre che distante anni luce da quanto sperimentato e vissuto nel laboratorio pugliese. Chiariamoci su un punto. Cultura politica non significa semplicemente un catalogo collettivo di testi sacri, padri e madri ideali, simboli condivisi, filoni di pensiero.
E’ tutto questo, ma è anche approccio relazionale, regole dello stare insieme, pratiche e strutture organizzative. Al di là di ciò che si è immediatamente portati a pensare, io credo che questo secondo aspetto sia centrale rispetto al primo e assai più determinante nel produrre la riuscita o meno di un amalgama. E’ il caso del PD, dove più che le differenze evidenti fra laici e cattolici, laburisti e liberali ciò che produce la difficoltà e forse l’impossibilità di una sintesi reale è l’assenza di una grammatica comune delle relazioni.
SEL vive la stessa contraddizione. Il punto non è mai incontrarsi su idee e programmi, che risultano naturalmente comuni a tutti gli aderenti, ma sul come realizzarli, sulle pratiche, sulle modalità organizzative. In questo la questione generazionale emerge con tutta la sua forza. Se è infatti possibile cambiare mille volte idea nell’arco di una vita, mutare le proprie priorità e persino la visione del mondo, molto più difficile, per usare un eufemismo, è trasformare la relazione fra la propria e altrui soggettività.
Per questo D’Alema rimarrà sempre un comunista italiano e Bertinotti non lo sarà mai. Per questo una generazione di militanti della sinistra non riesce a concepire l’idea di non avere un partito, e un’altra a fatica riesce a comprendere il significato della parola stessa. Affidarsi ai giovani non diventa dunque la parola d’ordine di uno sterile nuovismo, ma la condizione di affermazione di uno schema originale e condiviso. Costruire il futuro è un impegno che riguarda il lavoro di ciascuno, l’apporto di storie e immaginari diffusi, ma l’architettura e il progetto appartengono a chi ha la forza di immaginarlo a partire da oggi, senza il filtro di schermi passati.
Allora SEL comincerà ad essere qualcosa in più che il partito di Nichi Vendola, per diventare il movimento che con Nichi Vendola attraversa la sinistra italiana per portarla dove ha da tempo smesso di pensare di poter arrivare. A cambiare il paese senza perdere se stessa, a riscoprire la politica come forma possibile del cambiamento, a ritrovare l’orgoglio della propria storia, perché questa vive nel presente che disegna il futuro.
Giovanni Paglia
portavoce provinciale SEL Ravenna
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“L’alternativa possibile” di Nichi Vendola
Per il popolo del centrosinistra, e anche per molti dei suoi dirigenti, è stata una amara delusione.
Ci eravamo illusi che le vistose crepe nell’edificio del berlusconismo, le contraddizioni e le divisioni, le malcelate contrapposizioni fra gruppi di potere, le smagliature nell’ipnotico racconto berlusconiano, dalla ricomparsa della spazzatura nelle strade campane alla permanenza delle macerie in quelle dell’Aquila, dovessero immediatamente tradursi in un vertiginoso calo dei consensi elettorali.
Ci eravamo illusi che le vistose crepe nell’edificio del berlusconismo, le contraddizioni e le divisioni, le malcelate contrapposizioni fra gruppi di potere, le smagliature nell’ipnotico racconto berlusconiano, dalla ricomparsa della spazzatura nelle strade campane alla permanenza delle macerie in quelle dell’Aquila, dovessero immediatamente tradursi in un vertiginoso calo dei consensi elettorali.
Non è stato così, e anche dove si è effettivamente verificato quel calo di consensi ha premiato non il centrosinistra ma un’altra destra, forse più coerente e omogenea, di certo ancor più temibile, quella leghista.
Ma perché le cose sarebbero dovute andare altrimenti? Quale racconto diverso e alternativo ha saputo costruire il centrosinistra nei due anni che ci separano dallo sfondamento del centrodestra nelle elezioni politiche? Quali antidoti e anticorpi ha messo in campo per contrastare quei fenomeni profondi e incisivi, sociali e culturali oltre che politici, che sono il berlusconismo e lo spostamento a destra dell’intera società italiana?
Non possiamo, come nell’antico adagio cinese, restare seduti sulla sponda del fiume aspettando che passi il cadavere del nostro nemico. Se il centrosinistra non troverà il coraggio di guardarsi senza ipocrisie allo specchio, accorgendosi di quale vasto cimitero è spesso diventato, scoprendo l’impedimento e l’ostacolo che esso stesso oggi rappresenta, la crisi del berlusconismo si risolverà solo in un’ulteriore e ancor più fonda deriva di destra.
Quello che ci si richiede è un lavoro di lunga lena, metodico e paziente: non un miracolo o un colpo di bacchetta magica. Questo è il tempo della semina, senza la quale non arriverà mai il raccolto, non fra tre e neppure fra dieci anni.
E dobbiamo sapere che non esistono formule salvifiche e preconfezionate. Non basterà neppure il «ritorno ai territori», in questi casi continuamente, e giustamente, evocato. Al territorialismo della Lega, che reagisce al trauma della globalizzazione con un messaggio di chiusura, contrapposizione ed egoistica difesa degli interessi minuti locali dobbiamo saper opporre un territorialismo altrettanto radicato ma opposto: cosmopolita, aperto, solidale, capace di usare le specificità locali come leva per una valorizzazione complessiva delle differenze.
Non basteranno neppure le primarie, che pure, come l’esperienza della Puglia dimostra, comportano uno scatto imponente in termini di partecipazione e rimotivazione diffusa. Ma una politica che voglia essere davvero «buona» e partecipativa non può limitarsi a convocare ogni tanto il popolo per chiedergli di esercitare, con le primarie, il potere decisionale che gli spetta. Deve saper modificare i termini stessi del rapporto tra rappresentanti e rappresentati, rendendoli sempre e comunque orizzontali anziché verticali, fondati sullo scambio e il dialogo anziché sulla formula novecentesca della delega in bianco.
Dobbiamo chiedere alla nostra gente di intervenire attivamente in ogni occasione, e altrettanto diretti devono saper essere «i rappresentanti». A una platea che esplode in applausi scroscianti quando si parla di raccolta differenziata bisogna chiedere non di applaudire ma di praticare effettivamente quella raccolta differenziata, di agire subito per dar seguito nei fatti a quello che proclamiamo e che applaudiamo. Per sperimentare concretamente, qui ed ora, nella quotidianità, un altro modo di vivere.
Dobbiamo anche avere, tutti, il coraggio di ammettere l’inadeguatezza degli strumenti di cui disponiamo, dei partiti che abbiamo costruito in questi anni. Rischiamo di avere partiti leggerissimi quanto a consenso e partecipazione e pesanti, elefantiaci quanto ad apparati. Non è stata la via giusta sinora. Lo sarà ancor di meno in futuro.
Dobbiamo, infine, restituire spessore e senso a quel termine, «alternativa», che è oggi vuoto e che per questo non esercita più alcuna attrazione, non ridesta emozioni, non suscita speranze. Potrebbe forse essere un buon punto di partenza organizzare ovunque incontri liberi e di massa, quasi delle vere lezioni partecipate, su ciascuno dei termini di quel vocabolario che abbiamo smarrito e la cui eclisse spiega e giustifica più d’ogni altra cosa il dilagare della cultura e del sistema di disvalori della destra nel nostro paese.
Svincolata e astratta dal lavoro, la parola di cui la destra di Berlusconi più frequentemente abusa, «libertà», rovescia il suo più intimo significato. Intrecciare di nuovo lavoro e libertà, riscoprire il nesso indissolubile che c’è tra loro, è forse oggi la priorità assoluta, e più che mai di fronte all’assalto contro l’art. 18, circondato anche nel centrosinistra da un colpevole e suicida silenzio nel corso della campagna elettorale. Quel silenzio del centrosinistra va interrotto, tanto più alla luce della decisione di Napolitano di rinviare la legge di riforma del diritto del lavoro alle Camere. E’ necessario che tutta l’opposizione si mobiliti subito unitariamente e organizzi una grande manifestazione per respingere questo attacco contro uno dei più elementari diritti di libertà del lavoro.
Sino a che la parola «alternativa» non tornerà a indicare materialmente la possibilità effettiva, a portata di mano, di una vita diversa, tutti i discorsi sulle alleanze e sulle possibili alchimie politiche sono destinati a restare solo chiacchiericcio e vaniloquio. Faccio solo due esempi: la liberazione delle nuove generazioni dalla gabbia del precariato e il ripristino del primato dei beni comuni contro l’onnivora invasione della logica del mercato e del profitto.
Basterebbe questo a dare il senso di cosa deve significare alternativa.
Nichi Vendola
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